Fotografare può essere anche interpretato come l'atto intenzionale di stare dalla parte sicura dell'obbiettivo? Ovvero: per i timidi come me, fotografare può anche essere il modo di non essere fotografati?
Domenica mattina una manciata di perCorrenti ha avuto l'occasione di fare un'esercitazione all'aperto con una giovane aspirante modella.
Il tema principale dell'uscita non era il ritratto puramente inteso, ma la gestione delle dominanti con diverse luci (giornata limpida, parco cittadino, per cui luce solare calda diretta, morbida e fredda se in ombra, spesso entrambe) e le implicazioni delle diverse letture esposimetriche.
Poi come al solito e come ci piace fare, abbiamo divagato e nel calderone ci si è infilato di tutto.
Una delle questioni che sono emerse, molto a margine, è il rapporto tra chi scatta e chi viene ritratto durante lo shooting. La modella, chiaramente alle prime esperienze, ogni tanto era giustamente stanca e talvolta imbarazzata. I fotografi ogni tanto azzardavano qualche indicazione, ogni tanto sfruttavano quelle date dagli altri. Mi è venuto quindi in mente questo ottimo filmato dell'ottima FotoFactory di Modena su un workshop con l'ottimo Toni Thorimbert e ho promesso che l'avrei messo a disposizione. Ecco quindi il video. Thorimbert è veramente molto in gamba anche solo dal punto di vista pedagogico, gestisce la situazione, la spinge al limite, fa esplodere le emozioni (d'accordo, qualche piccola concessione alla spettacolarizzazione, ma chissene) e le riesce a ricomporre con maestria.
Sicuramente la professionalità della modella conta tantissimo, ma alla fine i più massacrati sono risultati i fotografi. Thorimbert spiega la necessità della relazione con il soggetto fotografato, la necessità della generosità ("la modella ti dà sé stessa da fotografare, tu cosa le dai?"), la necessità di tirare fuori le emozioni e l'importanza di "prendersi dei rischi".
Altrimenti al massimo vengono fuori solo foto carine. A quel punto meglio i gattini.